Senza aspettative ma colmi di speranza

 

Senza aspettative, ma colmi di speranza 

Ho partecipato recentemente a un incontro di formazione, organizzato da Apiart Lombardia, dedicato alla capacità negativa dell’arteterapeuta. La relatrice Sara Noli, autrice del libro omonimo, ha saputo dipanare ed esporre con chiarezza ed esaustività esperienze vissute e riflessioni svolte inconsciamente negli anni della mia professione in merito alla necessità che si impone, all’arteterapeuta, di relazionarsi con il vuoto, con l’attesa, con le lunghe tempistiche creative di alcuni utenti. Soprattutto in contesti nei quali fragilità motorie, cognitive, emotive sono più evidenti e strutturali (lavorando con persone con disabilità, con anziani con patologie degenerative, nell’ambito della salute  mentale…) può accadere di dover attendere ore e ore per vedere il compimento, a volte irraggiungibile, di qualche elaborato. Stare nel vuoto, nel silenzio creativo è una capacità tanto necessaria quanto complessa per un arteterapeuta. Solo nel vuoto, in uno spazio sufficientemente ampio, in effetti, può nascere, sorgere qualcosa di nuovo, di inedito. Laddove ci sono troppi stimoli, troppe parole, troppa presenza come potrebbe prendere forma la forma di un altro? Trovare il giusto equilibrio tra gli stimoli necessari, i suggerimenti utili, le parole rassicuranti e lo spazio, il silenzio, le distanze giuste è uno dei compiti più complessi e uno dei traguardi mai raggiunti una volta per tutte, per un arteterapeuta. Relazionarci con il vuoto creativo del paziente ci mette di fronte alla nostra stessa capacità di relazionarci con il vuoto, a diversi livelli: innanzi tutto a livello personale. So stare nel silenzio? So stare, io per prima, nel vuoto? O tendo a riempirlo di parole e di azioni, presa dall’ansia di essere utile, di servire a qualcosa, di aiutare? Che eco suscita in me il silenzio creativo del paziente? In secondo luogo costringe a rispondere di questo silenzio al committente. Soprattutto nel caso in cui non lavoro in ambito privato, ma sono parte, seppure piccola, di una rete di sostegno composta da educatori, psicoterapeuti, medici ecc…, saprò “dare senso”, restituire a quella rete il senso di quel vuoto, di quei tempi dilatati, di quelle attese apparentemente infinite? E, se anche saprò farlo, sarò compresa, e quindi ri-scelta per proseguire il mio lavoro? Non è facile fronteggiare questa incertezza quando, da questo, dipende la mia possibilità di sostentamento…

A seguito di quell’interessante incontro ho proseguito il filo della riflessione, dialogando con colleghe e con la mia supervisora, in particolare a partire da una delle citazioni opportunamente offerte in quell’occasione: bisognerebbe entrare in seduta con il paziente, ammonisce Bion, “senza memoria e senza desiderio”. Saper cogliere, quindi, ciò che in quella seduta emerge, dimentichi di ogni eventuale progresso raggiunto fin lì (al quale ci si potrebbe avvinghiare senza immaginare alternative possibili) e privi di aspettative su ulteriori passi avanti. Il campo quindi, in un certo senso, dev’essere sgombro, aperto, vuoto, appunto. Mi sono interrogata, a partire da qui, esattamente sulla differenza tra l’essere, nei confronti dei pazienti, senza aspettative e senza speranze. (Risuonavano in me, a fronte di quelle riflessioni così corrette e condivisibili, le sensazioni che a volte mi trovo a provare di fronte al comprensibile e condivisibile scoraggiamento che percepisco nelle équipe educative con le quali collaboro nell’ambito della Salute… (continua a leggere)Senza aspettative ma colmi di speranza

 

 

 

 

Senza aspettative ma colmi di speranza


Il prodigio del mostro

“Non c’è presa di coscienza senza sofferenza.

In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. 

Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore.

Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.” (C. G. Jung)

 

In questo ultimo anno, così complesso, ci è capitato di confrontarci più a lungo e più approfonditamente del solito, complice l’isolamento forzato, con noi stessi. Chiusi nelle nostre case, privati, per la maggior parte del tempo, del contatto sociale e delle consuete distrazioni, ci siamo ritrovati faccia a faccia con le nostre risorse, con la voglia di andare avanti, con le speranze ma anche, inevitabilmente, con le nostre ombre e le nostre difficoltà.

La frustrazione per progetti annullati o bloccati, la paura che a tratti si riaffaccia, l’incertezza sul futuro di questo momento possono aver riattivato in noi stati d’animo faticosi: depressione, ansia, rabbia, invidia, apatia. Possiamo chiamarli “mostri”? 

La parola mostro in effetti, dal latino monstrum, indicava originariamente qualcosa di prodigioso, che va oltre l’ordinario, sia in senso positivo che negativo. Gradualmente il termine ha assunto, nell’uso comune, il significato di qualcosa di spaventoso, tendenzialmente orrido.

Come arteterapeute utilizziamo abitualmente le immagini come strumento di indagine su noi stesse. Lo abbiamo fatto durante tutto l’ultimo anno, cercando aperture nella clausura, prospettive nell’incertezza, conforto e strumenti operativi nella difficoltà. Nell’ultimissimo periodo è emersa perentoriamente la necessità di rappresentare in modo simile anche le nostre ombre. Ci siamo così trovate faccia a faccia con i nostri mostri.

 

(continua nel  link. Monstrum)


Come funziona l’arteterapia?

Come funziona l’arteterapia?

L’opera come finestra/specchio

 

“Donna alla finestra con bambino” di Arturo Martini

Dal 2015 lavoro come arteterapeuta presso due centri diurni e una comunità per persone con disturbi psichiatrici. Conduco atelier di piccolo gruppo, incontrando ogni settimana all’incirca quaranta persone. Nel complesso ho conosciuto più o meno ottanta pazienti, alcuni solo per poche sedute, altri per periodi più lunghi, di mesi o addirittura anni.

L’arteterapia in contesto psichiatrico ha radici lontane. Si può dire, per certi versi, che, come disciplina, nasce proprio  in tale ambito. Tuttavia essa è, ancora oggi, un settore sfaccettato, che racchiude sotto la stessa etichetta approcci differenti e variegati, andando dall’atelier d’arte, in cui i pazienti trovano spazio per la libera espressione di sé, fino ad arrivare a sedute nelle quali la produzione artistica diventa occasione di scambio per veri e propri dialoghi terapeutici.

 

 

L’approccio al quale faccio riferimento si pone nel mezzo tra questi due estremi, Dopo una fase iniziale nella quale l’utente è lasciato più libero di esplorare i materiali a disposizione, sperimentando le tecniche e lasciando fluire spontaneamente i contenuti, l’arteterapeuta orienta il percorso cercando di individuare tematiche rilevanti, obiettivi raggiungibili e tecniche adeguate allo scopo. Tendenzialmente non si parla del vissuto, presente o passato, del paziente, ma, laddove possibile, lo si affronta più o meno approfonditamente attraverso l’arte, andando ad agire sulle modalità del “fare artistico” individuale, in un complesso gioco di vasi comunicanti in cui arte e realtà si influenzano reciprocamente.

Questo tipo di approccio, in ambito psichiatrico, si scontra con una realtà complessa, e deve tenere conto di molteplici variabili che non sempre concorrono alla riuscita del percorso, pur influenzandolo inevitabilmente. 

L’andamento dei disturbi, spesso ondivago e legato a molteplici fattori (l’assunzione dei farmaci e la loro efficacia, la vita famigliare e/o sociale dell’utente, la possibilità o inattuabilità del lavoro di rete degli operatori che si fanno carico del paziente, ecc…) non sempre permette lo svolgimento di un percorso arteterapeutico significativamente proficuo, che si affianchi e si allei al lavoro di rete mostrando evidenti cambiamenti e trasformazioni. Quasi sempre, tuttavia, fa da specchio allo stato di benessere (o malessere) del soggetto, mostrando in anticipo i segnali di mutamento in corso, nel bene e nel male. L’espressione artistica, canale comunicativo inusuale, permette l’emersione di contenuti del subconscio e dell’inconscio che non sempre riescono a trovare la parola, ma che, sovente, se non accolti, compresi e rielaborati, si trasformano in agiti, a volte anche auto o etero distruttivi.

Se il paziente è collaborativo e si mette in gioco, spesso già nei primi incontri a un occhio esperto non sfuggono le tracce di modalità di funzionamento, tematiche “calde” legate al vissuto, focus di attenzione da monitorare. Fragilità strutturali, schemi comportamentali, originalità percettive si manifestano nel tratto, nel modo di occupare il foglio, di gestire il colore e la sua consistenza.

Le recenti scoperte in campo neurobiologico, come ad esempio gli ormai famosi neuroni specchio, forniscono finalmente una base solida a quello che, per anni, non poteva essere spiegato se non come la “magia dell’arte”. Sono le esperienze che, fin dall’utero materno, formano gli schemi di funzionamento del cervello umano. I neuroni, i loro collegamenti, le reazioni agli stimoli cui sono sottoposti forniscono il materiale attraverso cui si costruisce la nostra mente. E, se questo è vero e fondativo per quanto riguarda le esperienze vissute da bambini, è ormai sufficientemente dimostrato che è possibile, anche da adulti, vivere esperienze differenti da quelle alle quali siamo “abituati”, apprendendo così nuovi pattern di funzionamento, nuove risposte possibili, nuove reazioni. 

L’arte con tutte le sue risorse (materiali, tecniche, sperimentazioni…) si può proporre quindi come una vera e propria palestra in cui fare esperienze inedite, che, inevitabilmente, e grazie alla guida di professionisti appositamente formati, andranno a contribuire alle possibili trasformazioni di schemi e modalità di pensiero. A partire dall’esperienza corporea del contatto con i materiali artistici, fino alla verbalizzazione dei contenuti estrapolati da un’immagine o da un elaborato, passando attraverso la relazione di fiducia che si instaura con l’arteterapeuta, ogni elemento contribuisce alla costruzione di percorsi personali che, di volta in volta, avranno obiettivi differenti. La riappropriazione del piacere del gioco, l’acquisizione di competenze frustrate, l’acquisizione di una crescente autostima, la definizione di una propria identità, l’evacuazione di stati di malessere e la possibilità di “prendere in mano” traumi e ferite sono solo alcune delle possibili tracce da sviluppare nei percorsi di arteterapia. La sfida è riuscire a fare tutto ciò attraverso gli strumenti dell’arte. In che modo?

I manufatti artistici realizzati nell’ambito di un percorso arteterapeutico sono finestre e specchi. Come il vetro trasparente può permettere di guardare all’esterno dal chiuso di una stanza e, viceversa, dall’esterno all’interno di un locale, così le opere dei pazienti svolgono il ruolo di soglia, di varco, di apertura attraverso cui l’utente si affaccia all’altro, e permette all’altro di guardare dentro. Come il vetro trasparente può, se il nostro sguardo si ferma sulla sua superficie e la luce lo consente, mostrare il nostro riflesso e farsi specchio, così le opere si offrono ai pazienti come specchi, dentro i quali osservare se stessi. L’arteterapeuta formato conosce e padroneggia questa duplice natura dell’opera d’arte e ne fa il suo strumento di lavoro. Si accosta all’utente nel suo affacciarsi alla “finestra”, ne osserva lo sguardo, che va oltre aprendosi al panorama del mondo esterno, oppure si ferma alla sua superficie, rivolgendo la sua attenzione a ciò che vi si riflette. Asseconda questo sguardo, lo allena, suggerisce nuovi punti di vista, ne allarga gli orizzonti spostando tende, alzando tapparelle, aprendo scuri; ne potenzia le capacità introspettive, favorendo posizioni che permettano miglior acutezza e definizione del proprio mondo interno, accompagnando così il paziente ad acquisire crescente consapevolezza della duplice possibilità che la finestra dell’arte apre ai suoi osservatori… Le opere prodotte all’interno di un setting di arteterapia sono finestre-specchi. L’arteterapeuta lo sa. E aiuta i suoi utenti ad acquisire consapevolezza di questa duplice natura, affinché possano utilizzare l’arte in modo sempre più funzionale al raggiungimento del proprio benessere. 

Più in generale potremmo dire che tutte le opere artistiche sono finestre e specchi. Possono favorire l’apertura al mondo narrandone realisticamente i contorni e le caratteristiche. Paesaggi, persone, relazioni si manifestano agli occhi degli spettatori in un caleidoscopio di possibilità che spazia dall’iperrealismo all’espressionismo. Similmente i manufatti degli utenti possono essere finestre  aperte sulla realtà, riproducendone ambienti famigliari, paesaggi della memoria, ritratti di persone significative, episodi di vita… Ma insieme, inevitabilmente, veicolano significati individuali, propri dell’autore che le realizza, che, attraverso il proprio caratteristico stile, trasmette la cifra, personale e unica, del suo proprio sguardo, e del materiale che lo ha costituito. La Provenza di Van Gogh non è certamente quella di Derain. La Parigi di Toulouse-Lautrec non è la stessa di Courbet o di Chagall. L’erotismo dei corpi di Schiele non sembra avere nulla a che vedere con quello delle donne di Modigliani… Analogamente il mondo interno del paziente, le sue emozioni, la cifra unica del suo modo di stare al mondo traspare, inevitabilmente, nei suoi manufatti, che si fanno specchio del suo mondo interno. 

Obiettivo dell’arteterapia non è, tuttavia, quello di creare artisti. L’arteterapeuta non è un maestro d’arte, non insegna a disegnare. Accompagna però i suoi utenti in un percorso che si svolge in maniera unica per ciascuno di loro, e che passa attraverso la sperimentazione delle tecniche, per aprire le finestre/specchi, l’acquisizione della consapevolezza di averle aperte, l’osservazione di ciò che  mettono in luce, l’arricchimento, l’ampliamento, la moltiplicazione, la trasformazione di tali finestre e, infine, la padronanza del dispositivo dell’arte come possibile strumento di introspezione, di comunicazione con l’altro e, in fin dei conti, di benessere. 

L’arteterapia in quanto tale potrebbe a ragion veduta essere definita un “dispositivo” in senso foucaultiano. Come tale è strumento, procedura, macchinario, habitat, luogo, tempo, ma anche relazione tra i suoi abitanti. Non ha, di per sé, connotazione positiva o negativa. Può funzionare o incepparsi. Può portare alla trasformazione o risultare inutile se non, al limite, dannoso. Può aggiornarsi o rimanere desueto e arretrato. In senso assoluto, come “disciplina”, come materia, come professione, consta di alcuni componenti imprescindibili, che lo rendono distinguibile da altri dispositivi (psicoterapia, counseling, educazione, scuola…). Ma tali componenti restano materiale inerte se l’arteterapeuta li applica in modo asettico e sempre identico a se stesso, senza mettere in gioco sé, la sua persona, le sue competenze relazionali, il suo bagaglio individuale. Ma, sopratutto, restano inerti se non riescono ad attivare nel paziente il desiderio, rendendolo s-oggetto protagonista e padrone del vero e proprio dispositivo arteterapeutico incarnato: il percorso.

Obiettivo principale dell’arteterapia è forse, prima di tutto, proprio questa attivazione del desiderio nel paziente. È il paziente che plasma, costruisce, assembla il suo proprio e unico dispositivo arteterapeutico. Il professionista che lo accompagna in questo percorso offre il contesto, fornisce strumenti e consigli tecnici, non distribuisce soluzioni né bacchette magiche. Egli non sa, prima e meglio, quale forma assumerà il dispositivo arteterapeutico per quel particolare utente. Fornisce il kit “di base”, che però si arricchisce e muta forma continuamente, diventando, di volta in volta, di seduta in seduta, contenitore, macchina del tempo, oggetto volante, nido, alimento, a seconda di quanto il soggetto mette in gioco, di come questo si rivela nell’oggetto mediatore (l’opera) e di quali soglie tutto ciò apre nell’utente, nella mente del terapeuta testimone e, di conseguenza o insieme, nella relazione tra loro.


Salvare “Mr. Banks”. Una metafora dell’arteterapia

011Nessuno ha avuto genitori perfetti. Ciascuno di noi ha qualche motivo, più o meno grave, più o meno fondato, più o meno consapevole, per nutrire sentimenti di insoddisfazione o perfino di risentimento nei confronti del proprio padre o della propria madre.

Questo perché i genitori perfetti non esistono. I genitori sono, inevitabilmente, persone. Che, a loro volta, hanno avuto genitori non perfetti e nonni non perfetti….in una catena inevitabile che lascia tracce (superficiali o profonde) nelle generazioni a seguire…

Affrontare un percorso di consapevolezza personale comporta un “faccia a faccia” a volte doloroso, sempre complesso, con le nostre radici. Con i bambini che siamo stati, e che erano i “semi” degli adulti che siamo diventati. Prendere in mano tutto questo non è mai semplice. Guardarsi allo specchio, riconoscere ciò che siamo e da dove provengono certi comportamenti, certi atteggiamenti, alcune ferite che, in qualche modo, condizionano il nostro modo di essere, è una vera e propria impresa, che può richiedere anni e che, in fondo, non finisce mai.

L’arteterapia è una delle strade possibili per affrontare un percorso simile. Una strada che ha a che fare, indissolubilmente, con la creatività, con le risorse creative interne a ciascuno di noi, che aspettano solo di essere risvegliate, attivate, coinvolte per avviare un processo di trasformazione e di cambiamento capace di rinnovarci profondamente e di riconciliarci con le nostre radici, il nostro passato, l’origine profonda di ciò che siamo.

Per comprendere in minima parte come questo possa accadere può essere utile la visione di un film, apparentemente estraneo all’arteterapia, ma che, tuttavia, mi sembra racconti in modo metaforico esattamente la magia che in un percorso arteterapeutico può (dovrebbe) avvenire.

“Saving mr. Banks” racconta la storia, non so dirvi quanto romanzata o fedele, dell’incontro tra P. L. Travers, l’inventrice del personaggio di Mary Poppins, e Walt Disney, il geniale (e per certi aspetti anche controverso) creatore di un prolifico universo di disegni animati, ancora oggi amati dai bambini di tutte le età. Tale incontro viene narrato dal film come una sorta di “combattimento”, tenacemente avviato dal magnate dell’industria cinematografica, per ottenere dalla scrittrice i diritti necessari per trasformare il personaggio letterario nell’eroina di un film holliwoodiano.

La scrittrice, magistralmente rappresentata da una meravigliosa Emma Thompson, appare nel film  come una donna sola, ostinatamente arroccata in difesa del personaggio frutto della sua immaginazione, ma anche delle sue abitudini, dei suoi modi di fare e di condurre un’esistenza solitaria e evidentemente poco fiduciosa nei confronti dell’altro, avvertito come potenzialmente pericoloso, distruttivo, non meritevole di fiducia.

Nel processo creativo attraverso il quale prende forma il film così come lo conosciamo, figlio dell’incontro-scontro tra P. L. Travers e il team della Disney, si rivela il potere trasformativo e perfino salvifico dell’arte in tutte le sue forme, e della condivisione di tale processo con un “altro da sé”, rappresentato, in prima istanza, da Walt Disney, risolutore accogliente di un nodo fondativo della bambina nascosta nella scrittrice….

Durante il pugnace incontro tra la donna e i diversi creativi che cercano di collaborare con lei per accontentarne le esigenze, restituendo la veridicità del personaggio da lei inventato, avviene infatti un processo doloroso che rivela come dentro a quella invenzione la scrittrice aveva riposto pezzi di un passato complesso e ferito. La magica governante rappresentava, nell’immaginario della scrittrice, la fantomatica risoluzione di eventi svoltisi in modo tutt’altro che fatato. Ed il “burbero” Mr. Banks altri non era che l’amatissimo padre, scomparso prematuramente a causa dell’alcolismo… Le risorse creative interiori avevano, dunque, operato un primo passo trasformativo, rivestendo il passato della scrittrice di una veste più “accettabile”, che, tuttavia,  non era stato sufficiente per riconciliare completamente la protagonista con se stessa, con la propria storia e con la fragilità dei propri genitori, che l’avevano inevitabilmente tradita, ferita, delusa.

Perché tale processo giunga a compimento è necessario, il film ci suggerisce, la condivisione di tale creazione con un altro “esperto” dell’immaginario, che coglie il nocciolo della questione e si fa garante di una promessa da adempiere, seppur, comunque, in modo imperfetto…. Il Mr. Banks del film Disney, redento e trasformato in padre “rattoppato”, restituisce a P. L. Travers l’immagine interna di genitore amato nonostante le sue fragilità, gli errori commessi, la fallibilità, e la riconcilia con se stessa e con la bambina che, nonostante le ferite involontariamente causatele dagli adulti, e da una storia a tratti feroce, ha saputo diventare grande e fare tesoro di ogni briciola di amore comunque ricevuto.

Almeno tre sono i passaggi-chiave nei quali intravedo una somiglianza con il processo arteterapeutico: il primo è il momento in cui Walt Disney riconosce, nella sua “antagonista”, se stesso, ciò che è stato a sua volta. Egli sa di aver riversato, nei suoi personaggi, preziose parti di sé, per le quali ha preteso l’identico rispetto che vuole ad ogni costo riconoscere alla scrittrice. In modo simile un arteterapeuta non potrà mai svolgere efficacemente il proprio lavoro se, prima, non ha a sua volta svolto un percorso simile, affidando ad altri, e al processo creativo condiviso, se stesso e le proprie fragilità.

Il secondo è il momento, seppure senz’altro romanzato, nel quale Walt Disney si fa carico della promessa di “salvare”, finalmente, Mr. Banks, riabilitando agli occhi del mondo il nucleo di amore in esso racchiuso dalla scrittrice. Il terapeuta si assume, in qualche modo, il ruolo di genitore, capace di tener fede ad una promessa: esserci fino alla fine del percorso, e accompagnare con pazienza e delicatezza il cammino atto a portare a compimento il processo creativo necessario.

Il terzo, conclusivo, è quello nel quale P. L. Travers, già parzialmente cambiata, assiste alla première del film per vedere con occhi nuovi il personaggio di Mr. Banks, diventato “altro” da quello del libro, e forse, proprio per questo, capace di risoluzione. Il padre, per quanto fallito, alcolizzato, prematuramente scomparso, è pur sempre il padre, amato e fondante, di quella bambina. Riconciliarsi con la sua figura, ri-accoglierla al proprio interno e sentirla compresa da un’altra persona (il terapeuta esperto di immaginario, fuor di metafora) è il primo passo necessario per ritrovare dentro di sé ciò che deve essere salvato per poter, finalmente, sciogliere il nodo interiore e ritrovare pian piano nuove modalità di affrontare la vita, rimanendo se stessi, eppure scoprendosi profondamente trasformati.

Il film disneyano è tutt’altro che perfetto agli occhi della protagonista. La scrittrice ha, alla fine, accettato di scendere a compromessi, affidando qualcosa di preziosissimo (la propria storia, la propria vita) a qualcun altro, lasciandosi accompagnare così, seppur in modo imperfetto, nel percorso atto a rendere visibile e condivisibile un mondo immaginario personale rappresentativo di sé. In modo simile un utente che affronta un percorso arteterapeutico dovrebbe sentirsi accompagnato, con rispetto, delicatezza e, insieme, risolutezza, verso l’espressione portata a compimento di quanto necessario per sciogliere i propri nodi interiori e salvare, così, il proprio “Mr. Banks”.

Marta de Rino


Un anno fuori dai margini

Vedere un bambino all’opera in atelier è un’esperienza unica. Ogni bambino ha il suo modo di procedere, di orientarsi nel materiale, di scegliere cosa usare. Qualcuno arriva con mille idee e, piano piano, “fa ordine” e le realizza tutte…. Qualcuno arriva con un progetto e, con calma e precisione, lo concretizza, arricchendolo di particolari…. Qualcuno sembra non avere in mente niente, ma si lascia conquistare e guidare dal materiale a disposizione.

Ogni volta è una sorpresa stupefacente.

Ma questo, forse, non accade ovunque. Forse c’è bisogno di un luogo accogliente, ricco di stimoli variegati, e di adulti preparati ad accompagnare il naturale processo creativo, insito in ogni creatura….ma a volte sopìto, o, nel tempo, omologato.

Forse c’è bisogno di adulti che creino, intorno al bambino, lo spazio necessario, senza aspettarsi un certo risultato, il raggiungimento di un obiettivo, la realizzazione di un prodotto.

Forse c’è bisogno di adulti che sappiano, loro per primi, uscire dai loro schemi, che percorrono i soliti binari, immaginano le cose “già viste”, presumono di conoscere “tutto”.

Gli orizzonti di un bambino sono molto più vasti dei margini in cui cerchiamo di trattenerli.

In Atelier Cenisio cerchiamo di fare questo.

E essere li, mentre un bambino è all’opera, è davvero uno spettacolo.


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