Come funziona l’arteterapia?
L’opera come finestra/specchio
“Donna alla finestra con bambino” di Arturo Martini
Dal 2015 lavoro come arteterapeuta presso due centri diurni e una comunità per persone con disturbi psichiatrici. Conduco atelier di piccolo gruppo, incontrando ogni settimana all’incirca quaranta persone. Nel complesso ho conosciuto più o meno ottanta pazienti, alcuni solo per poche sedute, altri per periodi più lunghi, di mesi o addirittura anni.
L’arteterapia in contesto psichiatrico ha radici lontane. Si può dire, per certi versi, che, come disciplina, nasce proprio in tale ambito. Tuttavia essa è, ancora oggi, un settore sfaccettato, che racchiude sotto la stessa etichetta approcci differenti e variegati, andando dall’atelier d’arte, in cui i pazienti trovano spazio per la libera espressione di sé, fino ad arrivare a sedute nelle quali la produzione artistica diventa occasione di scambio per veri e propri dialoghi terapeutici.
L’approccio al quale faccio riferimento si pone nel mezzo tra questi due estremi, Dopo una fase iniziale nella quale l’utente è lasciato più libero di esplorare i materiali a disposizione, sperimentando le tecniche e lasciando fluire spontaneamente i contenuti, l’arteterapeuta orienta il percorso cercando di individuare tematiche rilevanti, obiettivi raggiungibili e tecniche adeguate allo scopo. Tendenzialmente non si parla del vissuto, presente o passato, del paziente, ma, laddove possibile, lo si affronta più o meno approfonditamente attraverso l’arte, andando ad agire sulle modalità del “fare artistico” individuale, in un complesso gioco di vasi comunicanti in cui arte e realtà si influenzano reciprocamente.
Questo tipo di approccio, in ambito psichiatrico, si scontra con una realtà complessa, e deve tenere conto di molteplici variabili che non sempre concorrono alla riuscita del percorso, pur influenzandolo inevitabilmente.
L’andamento dei disturbi, spesso ondivago e legato a molteplici fattori (l’assunzione dei farmaci e la loro efficacia, la vita famigliare e/o sociale dell’utente, la possibilità o inattuabilità del lavoro di rete degli operatori che si fanno carico del paziente, ecc…) non sempre permette lo svolgimento di un percorso arteterapeutico significativamente proficuo, che si affianchi e si allei al lavoro di rete mostrando evidenti cambiamenti e trasformazioni. Quasi sempre, tuttavia, fa da specchio allo stato di benessere (o malessere) del soggetto, mostrando in anticipo i segnali di mutamento in corso, nel bene e nel male. L’espressione artistica, canale comunicativo inusuale, permette l’emersione di contenuti del subconscio e dell’inconscio che non sempre riescono a trovare la parola, ma che, sovente, se non accolti, compresi e rielaborati, si trasformano in agiti, a volte anche auto o etero distruttivi.
Se il paziente è collaborativo e si mette in gioco, spesso già nei primi incontri a un occhio esperto non sfuggono le tracce di modalità di funzionamento, tematiche “calde” legate al vissuto, focus di attenzione da monitorare. Fragilità strutturali, schemi comportamentali, originalità percettive si manifestano nel tratto, nel modo di occupare il foglio, di gestire il colore e la sua consistenza.
Le recenti scoperte in campo neurobiologico, come ad esempio gli ormai famosi neuroni specchio, forniscono finalmente una base solida a quello che, per anni, non poteva essere spiegato se non come la “magia dell’arte”. Sono le esperienze che, fin dall’utero materno, formano gli schemi di funzionamento del cervello umano. I neuroni, i loro collegamenti, le reazioni agli stimoli cui sono sottoposti forniscono il materiale attraverso cui si costruisce la nostra mente. E, se questo è vero e fondativo per quanto riguarda le esperienze vissute da bambini, è ormai sufficientemente dimostrato che è possibile, anche da adulti, vivere esperienze differenti da quelle alle quali siamo “abituati”, apprendendo così nuovi pattern di funzionamento, nuove risposte possibili, nuove reazioni.
L’arte con tutte le sue risorse (materiali, tecniche, sperimentazioni…) si può proporre quindi come una vera e propria palestra in cui fare esperienze inedite, che, inevitabilmente, e grazie alla guida di professionisti appositamente formati, andranno a contribuire alle possibili trasformazioni di schemi e modalità di pensiero. A partire dall’esperienza corporea del contatto con i materiali artistici, fino alla verbalizzazione dei contenuti estrapolati da un’immagine o da un elaborato, passando attraverso la relazione di fiducia che si instaura con l’arteterapeuta, ogni elemento contribuisce alla costruzione di percorsi personali che, di volta in volta, avranno obiettivi differenti. La riappropriazione del piacere del gioco, l’acquisizione di competenze frustrate, l’acquisizione di una crescente autostima, la definizione di una propria identità, l’evacuazione di stati di malessere e la possibilità di “prendere in mano” traumi e ferite sono solo alcune delle possibili tracce da sviluppare nei percorsi di arteterapia. La sfida è riuscire a fare tutto ciò attraverso gli strumenti dell’arte. In che modo?
I manufatti artistici realizzati nell’ambito di un percorso arteterapeutico sono finestre e specchi. Come il vetro trasparente può permettere di guardare all’esterno dal chiuso di una stanza e, viceversa, dall’esterno all’interno di un locale, così le opere dei pazienti svolgono il ruolo di soglia, di varco, di apertura attraverso cui l’utente si affaccia all’altro, e permette all’altro di guardare dentro. Come il vetro trasparente può, se il nostro sguardo si ferma sulla sua superficie e la luce lo consente, mostrare il nostro riflesso e farsi specchio, così le opere si offrono ai pazienti come specchi, dentro i quali osservare se stessi. L’arteterapeuta formato conosce e padroneggia questa duplice natura dell’opera d’arte e ne fa il suo strumento di lavoro. Si accosta all’utente nel suo affacciarsi alla “finestra”, ne osserva lo sguardo, che va oltre aprendosi al panorama del mondo esterno, oppure si ferma alla sua superficie, rivolgendo la sua attenzione a ciò che vi si riflette. Asseconda questo sguardo, lo allena, suggerisce nuovi punti di vista, ne allarga gli orizzonti spostando tende, alzando tapparelle, aprendo scuri; ne potenzia le capacità introspettive, favorendo posizioni che permettano miglior acutezza e definizione del proprio mondo interno, accompagnando così il paziente ad acquisire crescente consapevolezza della duplice possibilità che la finestra dell’arte apre ai suoi osservatori… Le opere prodotte all’interno di un setting di arteterapia sono finestre-specchi. L’arteterapeuta lo sa. E aiuta i suoi utenti ad acquisire consapevolezza di questa duplice natura, affinché possano utilizzare l’arte in modo sempre più funzionale al raggiungimento del proprio benessere.
Più in generale potremmo dire che tutte le opere artistiche sono finestre e specchi. Possono favorire l’apertura al mondo narrandone realisticamente i contorni e le caratteristiche. Paesaggi, persone, relazioni si manifestano agli occhi degli spettatori in un caleidoscopio di possibilità che spazia dall’iperrealismo all’espressionismo. Similmente i manufatti degli utenti possono essere finestre aperte sulla realtà, riproducendone ambienti famigliari, paesaggi della memoria, ritratti di persone significative, episodi di vita… Ma insieme, inevitabilmente, veicolano significati individuali, propri dell’autore che le realizza, che, attraverso il proprio caratteristico stile, trasmette la cifra, personale e unica, del suo proprio sguardo, e del materiale che lo ha costituito. La Provenza di Van Gogh non è certamente quella di Derain. La Parigi di Toulouse-Lautrec non è la stessa di Courbet o di Chagall. L’erotismo dei corpi di Schiele non sembra avere nulla a che vedere con quello delle donne di Modigliani… Analogamente il mondo interno del paziente, le sue emozioni, la cifra unica del suo modo di stare al mondo traspare, inevitabilmente, nei suoi manufatti, che si fanno specchio del suo mondo interno.
Obiettivo dell’arteterapia non è, tuttavia, quello di creare artisti. L’arteterapeuta non è un maestro d’arte, non insegna a disegnare. Accompagna però i suoi utenti in un percorso che si svolge in maniera unica per ciascuno di loro, e che passa attraverso la sperimentazione delle tecniche, per aprire le finestre/specchi, l’acquisizione della consapevolezza di averle aperte, l’osservazione di ciò che mettono in luce, l’arricchimento, l’ampliamento, la moltiplicazione, la trasformazione di tali finestre e, infine, la padronanza del dispositivo dell’arte come possibile strumento di introspezione, di comunicazione con l’altro e, in fin dei conti, di benessere.
L’arteterapia in quanto tale potrebbe a ragion veduta essere definita un “dispositivo” in senso foucaultiano. Come tale è strumento, procedura, macchinario, habitat, luogo, tempo, ma anche relazione tra i suoi abitanti. Non ha, di per sé, connotazione positiva o negativa. Può funzionare o incepparsi. Può portare alla trasformazione o risultare inutile se non, al limite, dannoso. Può aggiornarsi o rimanere desueto e arretrato. In senso assoluto, come “disciplina”, come materia, come professione, consta di alcuni componenti imprescindibili, che lo rendono distinguibile da altri dispositivi (psicoterapia, counseling, educazione, scuola…). Ma tali componenti restano materiale inerte se l’arteterapeuta li applica in modo asettico e sempre identico a se stesso, senza mettere in gioco sé, la sua persona, le sue competenze relazionali, il suo bagaglio individuale. Ma, sopratutto, restano inerti se non riescono ad attivare nel paziente il desiderio, rendendolo s-oggetto protagonista e padrone del vero e proprio dispositivo arteterapeutico incarnato: il percorso.
Obiettivo principale dell’arteterapia è forse, prima di tutto, proprio questa attivazione del desiderio nel paziente. È il paziente che plasma, costruisce, assembla il suo proprio e unico dispositivo arteterapeutico. Il professionista che lo accompagna in questo percorso offre il contesto, fornisce strumenti e consigli tecnici, non distribuisce soluzioni né bacchette magiche. Egli non sa, prima e meglio, quale forma assumerà il dispositivo arteterapeutico per quel particolare utente. Fornisce il kit “di base”, che però si arricchisce e muta forma continuamente, diventando, di volta in volta, di seduta in seduta, contenitore, macchina del tempo, oggetto volante, nido, alimento, a seconda di quanto il soggetto mette in gioco, di come questo si rivela nell’oggetto mediatore (l’opera) e di quali soglie tutto ciò apre nell’utente, nella mente del terapeuta testimone e, di conseguenza o insieme, nella relazione tra loro.