Salvare “Mr. Banks”. Una metafora dell’arteterapia

011Nessuno ha avuto genitori perfetti. Ciascuno di noi ha qualche motivo, più o meno grave, più o meno fondato, più o meno consapevole, per nutrire sentimenti di insoddisfazione o perfino di risentimento nei confronti del proprio padre o della propria madre.

Questo perché i genitori perfetti non esistono. I genitori sono, inevitabilmente, persone. Che, a loro volta, hanno avuto genitori non perfetti e nonni non perfetti….in una catena inevitabile che lascia tracce (superficiali o profonde) nelle generazioni a seguire…

Affrontare un percorso di consapevolezza personale comporta un “faccia a faccia” a volte doloroso, sempre complesso, con le nostre radici. Con i bambini che siamo stati, e che erano i “semi” degli adulti che siamo diventati. Prendere in mano tutto questo non è mai semplice. Guardarsi allo specchio, riconoscere ciò che siamo e da dove provengono certi comportamenti, certi atteggiamenti, alcune ferite che, in qualche modo, condizionano il nostro modo di essere, è una vera e propria impresa, che può richiedere anni e che, in fondo, non finisce mai.

L’arteterapia è una delle strade possibili per affrontare un percorso simile. Una strada che ha a che fare, indissolubilmente, con la creatività, con le risorse creative interne a ciascuno di noi, che aspettano solo di essere risvegliate, attivate, coinvolte per avviare un processo di trasformazione e di cambiamento capace di rinnovarci profondamente e di riconciliarci con le nostre radici, il nostro passato, l’origine profonda di ciò che siamo.

Per comprendere in minima parte come questo possa accadere può essere utile la visione di un film, apparentemente estraneo all’arteterapia, ma che, tuttavia, mi sembra racconti in modo metaforico esattamente la magia che in un percorso arteterapeutico può (dovrebbe) avvenire.

“Saving mr. Banks” racconta la storia, non so dirvi quanto romanzata o fedele, dell’incontro tra P. L. Travers, l’inventrice del personaggio di Mary Poppins, e Walt Disney, il geniale (e per certi aspetti anche controverso) creatore di un prolifico universo di disegni animati, ancora oggi amati dai bambini di tutte le età. Tale incontro viene narrato dal film come una sorta di “combattimento”, tenacemente avviato dal magnate dell’industria cinematografica, per ottenere dalla scrittrice i diritti necessari per trasformare il personaggio letterario nell’eroina di un film holliwoodiano.

La scrittrice, magistralmente rappresentata da una meravigliosa Emma Thompson, appare nel film  come una donna sola, ostinatamente arroccata in difesa del personaggio frutto della sua immaginazione, ma anche delle sue abitudini, dei suoi modi di fare e di condurre un’esistenza solitaria e evidentemente poco fiduciosa nei confronti dell’altro, avvertito come potenzialmente pericoloso, distruttivo, non meritevole di fiducia.

Nel processo creativo attraverso il quale prende forma il film così come lo conosciamo, figlio dell’incontro-scontro tra P. L. Travers e il team della Disney, si rivela il potere trasformativo e perfino salvifico dell’arte in tutte le sue forme, e della condivisione di tale processo con un “altro da sé”, rappresentato, in prima istanza, da Walt Disney, risolutore accogliente di un nodo fondativo della bambina nascosta nella scrittrice….

Durante il pugnace incontro tra la donna e i diversi creativi che cercano di collaborare con lei per accontentarne le esigenze, restituendo la veridicità del personaggio da lei inventato, avviene infatti un processo doloroso che rivela come dentro a quella invenzione la scrittrice aveva riposto pezzi di un passato complesso e ferito. La magica governante rappresentava, nell’immaginario della scrittrice, la fantomatica risoluzione di eventi svoltisi in modo tutt’altro che fatato. Ed il “burbero” Mr. Banks altri non era che l’amatissimo padre, scomparso prematuramente a causa dell’alcolismo… Le risorse creative interiori avevano, dunque, operato un primo passo trasformativo, rivestendo il passato della scrittrice di una veste più “accettabile”, che, tuttavia,  non era stato sufficiente per riconciliare completamente la protagonista con se stessa, con la propria storia e con la fragilità dei propri genitori, che l’avevano inevitabilmente tradita, ferita, delusa.

Perché tale processo giunga a compimento è necessario, il film ci suggerisce, la condivisione di tale creazione con un altro “esperto” dell’immaginario, che coglie il nocciolo della questione e si fa garante di una promessa da adempiere, seppur, comunque, in modo imperfetto…. Il Mr. Banks del film Disney, redento e trasformato in padre “rattoppato”, restituisce a P. L. Travers l’immagine interna di genitore amato nonostante le sue fragilità, gli errori commessi, la fallibilità, e la riconcilia con se stessa e con la bambina che, nonostante le ferite involontariamente causatele dagli adulti, e da una storia a tratti feroce, ha saputo diventare grande e fare tesoro di ogni briciola di amore comunque ricevuto.

Almeno tre sono i passaggi-chiave nei quali intravedo una somiglianza con il processo arteterapeutico: il primo è il momento in cui Walt Disney riconosce, nella sua “antagonista”, se stesso, ciò che è stato a sua volta. Egli sa di aver riversato, nei suoi personaggi, preziose parti di sé, per le quali ha preteso l’identico rispetto che vuole ad ogni costo riconoscere alla scrittrice. In modo simile un arteterapeuta non potrà mai svolgere efficacemente il proprio lavoro se, prima, non ha a sua volta svolto un percorso simile, affidando ad altri, e al processo creativo condiviso, se stesso e le proprie fragilità.

Il secondo è il momento, seppure senz’altro romanzato, nel quale Walt Disney si fa carico della promessa di “salvare”, finalmente, Mr. Banks, riabilitando agli occhi del mondo il nucleo di amore in esso racchiuso dalla scrittrice. Il terapeuta si assume, in qualche modo, il ruolo di genitore, capace di tener fede ad una promessa: esserci fino alla fine del percorso, e accompagnare con pazienza e delicatezza il cammino atto a portare a compimento il processo creativo necessario.

Il terzo, conclusivo, è quello nel quale P. L. Travers, già parzialmente cambiata, assiste alla première del film per vedere con occhi nuovi il personaggio di Mr. Banks, diventato “altro” da quello del libro, e forse, proprio per questo, capace di risoluzione. Il padre, per quanto fallito, alcolizzato, prematuramente scomparso, è pur sempre il padre, amato e fondante, di quella bambina. Riconciliarsi con la sua figura, ri-accoglierla al proprio interno e sentirla compresa da un’altra persona (il terapeuta esperto di immaginario, fuor di metafora) è il primo passo necessario per ritrovare dentro di sé ciò che deve essere salvato per poter, finalmente, sciogliere il nodo interiore e ritrovare pian piano nuove modalità di affrontare la vita, rimanendo se stessi, eppure scoprendosi profondamente trasformati.

Il film disneyano è tutt’altro che perfetto agli occhi della protagonista. La scrittrice ha, alla fine, accettato di scendere a compromessi, affidando qualcosa di preziosissimo (la propria storia, la propria vita) a qualcun altro, lasciandosi accompagnare così, seppur in modo imperfetto, nel percorso atto a rendere visibile e condivisibile un mondo immaginario personale rappresentativo di sé. In modo simile un utente che affronta un percorso arteterapeutico dovrebbe sentirsi accompagnato, con rispetto, delicatezza e, insieme, risolutezza, verso l’espressione portata a compimento di quanto necessario per sciogliere i propri nodi interiori e salvare, così, il proprio “Mr. Banks”.

Marta de Rino


Un anno fuori dai margini

Vedere un bambino all’opera in atelier è un’esperienza unica. Ogni bambino ha il suo modo di procedere, di orientarsi nel materiale, di scegliere cosa usare. Qualcuno arriva con mille idee e, piano piano, “fa ordine” e le realizza tutte…. Qualcuno arriva con un progetto e, con calma e precisione, lo concretizza, arricchendolo di particolari…. Qualcuno sembra non avere in mente niente, ma si lascia conquistare e guidare dal materiale a disposizione.

Ogni volta è una sorpresa stupefacente.

Ma questo, forse, non accade ovunque. Forse c’è bisogno di un luogo accogliente, ricco di stimoli variegati, e di adulti preparati ad accompagnare il naturale processo creativo, insito in ogni creatura….ma a volte sopìto, o, nel tempo, omologato.

Forse c’è bisogno di adulti che creino, intorno al bambino, lo spazio necessario, senza aspettarsi un certo risultato, il raggiungimento di un obiettivo, la realizzazione di un prodotto.

Forse c’è bisogno di adulti che sappiano, loro per primi, uscire dai loro schemi, che percorrono i soliti binari, immaginano le cose “già viste”, presumono di conoscere “tutto”.

Gli orizzonti di un bambino sono molto più vasti dei margini in cui cerchiamo di trattenerli.

In Atelier Cenisio cerchiamo di fare questo.

E essere li, mentre un bambino è all’opera, è davvero uno spettacolo.


Perché fare un percorso di arteterapia?

SpecchioNon sono richieste competenze artistiche per intraprendere un percorso arteterapeutico. Con l’accompagnamento e la guida di un Arteterapeuta ci si riappropria gradualmente delle risorse creative latenti, lavorando sulle proprie potenzialità e capacità di sviluppare cambiamenti apprezzabili in un primo momento nell’arte ma trasferibili e riscontrabili poi nella vita quotidiana.

L’arteterapia può aiutare ad affrontare situazioni di difficoltà e momenti di disagio.
L’ansia, le piccole trappole quotidiane nelle quali continuiamo a ricadere, le coazioni a ripetere, si rivelano insieme ai nostri punti di forza e alle possibilità di uscire dai labirinti dentro i quali, spesso, ci perdiamo…
L’arteterapia è un percorso d’aiuto sorprendente.


A come arteterapia

L’arteterapia in Italia, da pochi anni, fa parte di un variegato e numeroso gruppo di professioni, definite da un apposito decreto (D.L. 14/01/2013 n. 4) “professioni non riconosciute”. In tale insieme dal nome quanto mai significativo, trovano posto amministratori di condominio, grafologi, nutrizionisti, osteopati, archeologi, sociologi, traduttori e chi più ne ha più ne metta.
Tracciando la genealogia di questa disciplina, anche al fine di individuarne i confini e renderli più definiti e riconoscibili, ci si avventura in territori affascinanti, e si scopre abbastanza facilmente che in essa confluiscono, fondamentalmente, due spinte originarie, intuibili già a partire dal suo nome. In luoghi diversi, in epoche vicine ma non coincidenti, infatti, artisti da un lato e psichiatri dall’altro iniziano ad introdurre l’arte e le sue tecniche in contesti “anomali”, e legati al concetto di patologia o di presa in carico di un problema. Cogliendo il potere quasi magico del processo creativo, quale luogo in cui si mettono in gioco molteplici risorse cognitive, emotive e trasformative, e intuendo il potenziale comunicativo dell’arte come linguaggio alternativo al verbale, capace di portare alla luce contenuti inconsci, altrimenti inesprimibili, i pionieri dell’arteterapia pongono le basi di questa disciplina, riuscendo a portare speranza in luoghi inattesi: il ghetto ebraico di Praga e i campi di concentramento di Terezin (F. Dicker-Brandeis), i quartieri più svantaggiati di New York e i centri di neuropsichiatria infantile (E. Kramer), gli ospedali psichiatrici (M. Naumberg).
Decenni di applicazione e di casistica hanno contribuito all’affermazione dell’arteterapia nei paesi anglosassoni e di lingua spagnola. In molti paesi è ormai fuori discussione la portata efficace e versatile dell’arteterapia, nella prevenzione e nel trattamento di variegate patologie e problematiche e anche nella diagnosi di patologie di origine psichica o nella presa in carico di persone affette da stress post-traumatico.
Nonostante questo passato glorioso, e decine e decine di casi narrati in letteratura specifica, in Italia l’arteterapia non gode, purtroppo, dell’autorevolezza che meriterebbe.
Il ruolo di arteterapeuta risulta infatti ancora troppo spesso schiacciato tra due poli: da un lato le scienze psicologiche, affermatesi anch’esse faticosamente, stentano a riconoscere una specificità a tale disciplina, e si preoccupano di una eventuale sovrapposizione di ambiti, in realtà inesistente.
Dall’altro l’arte applicata, e il fiorire sempre più evidente di laboratori creativi rivolti a tutti, in contesti scolastici, extrascolastici, e sanitari, presume che il solo processo creativo, con il suo innegabile potere, sia per se stesso terapeutico.
È necessario, oggi più che mai, definire chiaramente i contorni e i contesti dell’arteterapeuta, distinguendo i suoi compiti, le sue funzioni, i suoi strumenti, da quelli dello psicoterapeuta e del maestro d’arte.
È necessario riuscire a far comprendere che l’arteterapeuta professionista accompagna i suoi pazienti, o utenti (anche la difficoltà nel dare nome a chi gli si rivolge, è di per se significativa) in percorsi di consapevolezza di sé, di riconoscimento e presa in carico di problematiche, di rielaborazione di vissuti dolorosi o traumatici attraverso un codice specifico, il codice artistico, appunto.
L’arteterapeuta è un esperto dell’immaginario, e delle modalità attraverso le quali tale immaginario emerge e prende forma negli elaborati di qualunque persona. Conosce le tecniche artistiche e le caratteristiche che fanno sì che alcune siano opportune per qualcuno, e per qualcun altro no. Sa “leggere” le immagini nei loro aspetti fenomenologici, formali, e ricondurne le leggi alle modalità di funzionamento e/o “disfunzionamento” dell’individuo. Sa costruire una relazione di fiducia e gestire transfert e controtransfert, anche al fine di accompagnare i propri pazienti in un graduale, calibrato e progressivo affrancamento dalla terapia.
Un percorso arteterapeutico funziona non nella misura in cui si riferisce a qualche teoria psicologica ad esso sottesa. Né, semplicemente, per le straordinarie capacità di un maestro d’arte di risvegliare l’artista nascosto in ciascuno di noi, riattivando le sue potenzialità creative.
Un percorso arteterapeutico funziona nella misura in cui risponde a determinate caratteristiche, irrinunciabili, che devono essere presenti e avanzare di pari passo, senza che l’una prevalga sull’altra, sbilanciandosi, dunque, verso uno dei due poli da cui trae origine tale disciplina, ma ai quali non può più (e non deve) ridursi.
Lo sguardo dell’arteterapeuta è uno sguardo che passa attraverso un triplice filtro: gli aspetti fenomenologici e formali dell’opera del paziente, quelli relazionali che ne permettono la manifestazione, quelli di contenuto che vi si manifestano, attraverso un linguaggio iconico e non verbale. Nessuno di tali aspetti può mancare. Ognuno deve essere presente in tutte le fasi del percorso. Si tratta proprio, per tentare di usare una metafora, di un filtro, come quello che si può sovrapporre all’obiettivo di una macchina fotografica, e che ci permette di vedere la realtà, ciò che osserviamo, in un modo “speciale”. Non è sufficiente immaginare tale filtro semplicemente come una lente colorata, che si limita a mostrarci la realtà in bianco e nero, o con i colori falsati o enfatizzati. La realtà, vista attraverso quel triplice sguardo, si mostra come “codificata”, come in Matrix. L’arteterapeuta esperto, allenato all’uso di tale filtro, non vede di fronte a sé codici, e numeri, ma, pur vedendo oggetti, figure, persone, sa leggere i codici e i numeri che essi “veicolano”.
Un punto in una certa zona del foglio, dunque, posto da un paziente dopo una serie di altri punti posti su altri fogli, acquista significati specifici, che l’arteterapeuta sa riconoscere, rinforzare, valorizzare, restituire all’autore affinché proceda nel percorso intrapreso.
Una casa, un albero, un volto….. Un colore, una forma, una linea…hanno senso se letti attraverso tale filtro, anche in relazione a quanto li segue e li precede. Hanno senso, possono essere compresi e “utilizzati” dall’arteterapeuta che sa guardarli attraverso tale filtro, che tiene conto della relazione, dei vissuti, delle modalità tecniche proprie di chi li ha “disegnati”, plasmati, “creati”.
L’arteterapeuta, dunque, non può in alcun modo sostituirsi al psicoterapeuta. Il codice artistico che utilizza, visto attraverso un “filtro” specifico, non si sovrappone a quello verbale.
Non può nemmeno limitarsi a essere un bravo maestro d’arte. Il processo creativo non è di per sé sempre sufficiente alla trasformazione e al cambiamento di situazioni patologiche.
In tal senso, dunque, difficilmente un album di figure prestampate da colorare (per quanto raffinate ed eleganti possano essere) può essere definito “arteterapia”. Eppure in Italia, paese nel quale l’arteterapia è una professione non riconosciuta, l’appiattimento tra essa e tali fascicoli acquistabili in edicola e in libreria è un paradosso in atto. L’arteterapia, finalmente, giunge all’orecchio del grande pubblico. E l’arteterapeuta rischia di essere sempre più relegato a figura pleonastica, sostituibile non solo da psicoterapeuti e artisti, ma anche da albi illustrati.
È urgente dunque dare concretezza e fondamenta solide e condivise all’arteterapia. Sgombrare il campo da sovrapposizioni, da fraintendimenti, da confusioni. Per attribuire finalmente, anche in Italia, un volto definito a tale disciplina, affinché possa il prima possibile uscire dal recinto delle professioni “non riconosciute”, ed essere finalmente riconosciuta nella sua autonomia e autorevolezza.
Marta de Rino.